Nel corso degli anni mi si è
sviluppata una certa repulsione nei
confronti degli autori sudamericani (il fatto che in un libro tutti i protagonisti si chiamino Aureliano Buendìa supera la mia
capacità di sopportazione), cosa assolutamente non condivisa dal mio editor
che al contrario li adora.
Molti suoi tentativi di costringermi a leggere questo o
quell’altro non sono andati in porto, ma se io sono cocciuto da una parte lei è
cocciuta dall’altra e continua a insistere, e alla fine, anche per
salvaguardare il ménage familiare, ho
fatto buon viso a cattivo gioco e ho acconsentito a leggere questo romanzo che
lei sosteneva essere molto carino (ma questo significa poco, lo dice di tutti i
sudamericani).
E, tanto per confermare i
miei timori, il romanzo di Isabel
Allende ha cominciato ben presto a farmi girare le palle perché, alla
faccia del titolo, per diverse decine di pagine non c’è alcuna traccia di
qualsivoglia Amante giapponese, e
uno comincia a domandarsi il perché di un titolo del genere se la vicenda
tratta invece delle problematiche di un ospizio per anziani (un sacco allegro:
schiattano una moltitudine di vecchietti…). E non è nemmeno colpa di una
traduzione impropria: il titolo originale recita infatti El amante japonés.
Ma quando sei lì lì per
rinunciarci… ecco che salta fuori questo Ichimei
Fukuda che comincia a dare un senso perlomeno al titolo… Salta fuori perché
un’ospite dell’anticamera del Paradiso dell’ospizio si comporta in modo
strano, e quando i congiunti indagano sul perché delle sue stranezze scoprono
che l’ultraottantenne Alma Belasco ha
un amante pressoché coetaneo, quel giapponese lì, appunto, con il quale sta
insieme da una vita senza che nessun’altro di quelli che le sono stati vicino abbia
mai sospettato nulla.
Alma
Belasco è un’anziana
signora ricca e famosa, originaria della Polonia dalla quale i genitori l’hanno
fatta fuggire prima di rimanere vittime delle persecuzioni naziste, e che si è
fatta un nome importante nel campo dell’arte e della moda. Una donna volitiva e
indipendente, che alla sua età gira in Smart
(una via di mezzo tra una bicicletta e una carrozzina a rotelle, dice lei)
perché così le sembra di non poter uccidere nessun pedone.
Isabel
Allende parte così con il
narrare della vita di Alma e di come alla fine sia capitata volontariamente in
un ospizio, per continuare con il raccontare la vita di tutti i componenti della famiglia Belasco (per quattro
generazioni!) che l’ha adottata e poi inglobata, della badante slava che la segue nell’istituto e che poi (forse, ma non è
dato di saperlo) finirà per diventare la moglie di suo nipote, per proseguire con
la vita dell’amante Ichi e di tutti i componenti della sua famiglia
giapponese, e alla fine ti lascia con un palmo di naso perché smette di punto
in bianco di narrare biografie e il libro è finito e tu ti domandi ma come? Finito così? E l’amante che fine ha
fatto? E lei neanche muore?
In pratica, alla fine di un pippone interminabile in cui analizza
nei minimi particolari una quindicina di esistenze, alla resa dei conti l’autrice
non ti dice nemmeno che fine fanno i protagonisti principali. Per carità, uno
se lo immagina (schiattano); ma probabilmente questa è la ragione (una delle)
per cui questo romanzo è stato giudicato coram
populo come uno dei peggiori
della scrittrice peruvian-cilena-statunitense (checché ne dica la consorte).
Per me, nulla di sorprendente.
Ad essere del tutto sincero alcune
parti interessanti le ho incontrate, perché di contorno alle biografie vi sono inquadramenti storici importanti che mi
hanno anche rivelato cose che non sapevo, come la trattazione particolareggiata
delle deportazioni dei nippo-statunitensi all’interno degli Stati Uniti nel
corso della seconda guerra mondiale. E per dare un contentino alla consorte
ammetterò che il romanzo è colmo di sentimento, da quelli personali a partire
dall’amore sublime e resistente al
tempo tra Alma e Ichi, all’amore tra gli altri membri delle famiglie, all’amore
per le piante, per gli animali e per l’umanità in genere, e a tratti questo
amore è anche raccontato in maniera decente.
Però alla fine, nonostante lo
stile discorsivo della Allende sia
leggibilissimo e chiaro, rimane una narrazione in cui si nota troppa carne al
fuoco e portata avanti con un tono di sottofondo freddo e impersonale, mi viene
in mente di dire da anatomopatologo, per
poi concludere il libro di punto in bianco con un niente: tutti i personaggi, perlomeno quelli ancora viventi al
tempo presente della narrazione, vengono lasciati a loro stessi senza specificare
per nessuno la fine che fa, e questo veramente lascia molto perplessi. La mia
consorte dirà (già la sento…): non ce n’era
bisogno di dire che fine facessero…
E questo potrebbe anche
essere giustificabile, ma resta il fatto che passerà molto, ma mooooolto tempo, prima che io possa
anche solo pensare di riprendere in mano un altro scrittore sudamericano…
Il Lettore razzista
(letterariamente parlando)
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