martedì 16 febbraio 2016

Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta

Perché recensisco ora questo libro dopo… vediamo… almeno trentacinque anni che l’ho letto (e apprezzato)? Perché l’altro giorno l’hanno citato in una di quelle cagate di classifiche che fanno nei giornali on line inserendolo tra i dieci libri che tutti fingono di aver letto.
Insieme a questo c’erano Il giovane Holden (sopravvalutato, e fin qui ci può stare); Siddharta (giudicato noiosissimo (!)); Il vecchio e il mare (che l’autore della lista rimpiange di aver letto (!!)); La morte a Venezia (non sapendo a cosa attaccarsi per parlarne male l’autore della lista se la prende con chi pronuncia il nome dell’autore all’inglese) e alcuni altri.
Anche il romanzo di Robert Maynard Pirsig è giudicato noiosissimo (!) al punto che l’autore dell’articolo, sedicente giornalista, ammette di non averlo mai nemmeno terminato.
‘N ti gusti ‘n ce se sputa, diciamo qui a Perugia, ed è del tutto vero, del resto nemmeno io sono mai riuscito ad andare oltre la ventesima pagina de I promessi sposi, ed è vero anche che Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta è uno dei libri più millantati perché è considerato un cult book, preso come stemma, portato in palma di mano da una generazione di beatnik, hippies e sessantottini in un periodo in cui le motociclette e la filosofia Zen erano molto di moda, ma il sentirlo denigrare alla stregua di un mattone qualsiasi mi ha fatto male. A me è piaciuto, l’ho letto con interesse e ne ho tratto degli insegnamenti, l’ho consigliato a qualche amico, e penso che chiunque ne parli male non abbia nemmeno fatto la fatica di tentare di capire cosa ci fosse scritto dentro.




Ricordo che lo presi appena pubblicato in Italia, affascinato dal titolo (bellissimo!) e non sapendo ancora cosa fosse lo Zen, perché all’epoca ero un motociclista appassionato e puro (nel senso che non possedevo alcuna automobile e me ne andavo in giro estate e inverno, col sole, la pioggia e la neve sulla mia Honda 450 bicilindrica), e sarò sincero, lì per lì ho pensato che parlasse più che altro di motociclette. Beata gioventù ignorante!
Pur accorgendomi ben presto che non era propriamente così, ho proseguito comunque nella lettura e mi sono lasciato trasportare in quel doppio viaggio che il protagonista effettua attraverso gli Stati Uniti e all’interno di se stesso.
È vero, il ritmo è lento, e la modalità di lettura cambia man mano che si procede nel libro: da un inizio quasi leggero, nel quale i problemi contingenti fanno sorgere la necessità di partire per tentare di risolverli, si vedono questi problemi cambiare aspetto, fino a immergersi in una vera e propria ricerca di risposte alle domande che prima o poi tutti ci facciamo nella vita, su livelli differenti e con un grado diverso di profondità, e per le quali ognuno arriva a trovare soluzioni diverse da quelle di qualsiasi altro.
I problemi relativi alla manutenzione della motocicletta vengono risolti in modi diversi a seconda della moto e del carattere del suo pilota: in genere, se si rompe una levetta su una BMW da 15.000 euro (difficile…), il suo proprietario pretenderà un perfetto e costosissimo ricambio originale pervenuto dalla Germania, ma se la stessa cosa succede su una Triumph di 15 anni non sarà difficile che il guasto si possa accomodare con un pezzo di ferro sagomato per l’occasione. E così per i problemi psicologici di ognuno di noi.
Il protagonista, durante il viaggio in moto con il figlio, lascia volare il pensiero su questi interrogativi ed elabora la sua interpretazione della teoria della Metafisica della Qualità, cioè la ricerca della propria personalità in rapporto con il principio ontologico delle basi dell’essere, interrogandosi sui principi basilari della vita in una fusione tra pensiero occidentale e pensiero orientale.
Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore” dice Fedro, l’alter ego del protagonista del libro, e questa frase mi riporta a un altro libro che ho molto amato qualche tempo più tardi: Il Tao della fisica, nel quale gli stessi concetti vengono analizzati in maniera più scientifica da Fritjof Capra, e la stessa commistione tra mentalità occidentale e filosofie orientali ho potuto apprezzarla anche in Lo Zen e il tiro con l’arco, un altro stupendo cult book di Eugene Herrigel.
È della ricerca del Divino che tratta il romanzo, della ricerca dell’Enthousiasmós, cioè l’entusiasmo da mettere in tutte le cose che si fanno, per mezzo di un viaggio entro se stessi sotto forma di chautauqua, cioè di conversazioni rappresentate in teatri ambulanti nelle quali si confrontavano opinioni sui più svariati argomenti.
Fedro tenta di risolvere i problemi suoi e quelli del figlio con la riflessione, partendo dalle necessità oggettive del mezzo su cui stanno viaggiando e sugli aspetti dei luoghi che stanno attraversando, e per sopravvivere a se stessi in modo dignitoso cerca di farlo con  tutto l’enthousiasmós che gli è possibile.
Per quanto ad un impatto superficiale possa apparire ingannevolmente noioso, e ripeto: ingannevolmente, non penso che un testo del genere possa essere liquidato con la leggerezza da incompetente che adopera l’autore dell’articolo.
Anzi, scrivere questo post mi ha fatto venire una certa voglia di rileggerlo… dopo quasi quarant’anni… quasi quasi…
Il Lettore 

Nessun commento:

Posta un commento