mercoledì 7 ottobre 2015

L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio

Riprendendo quanto detto nello Squizzalibro, dopo aver abbandonato molto prima della fine la lettura di ben due dei nostri stimatissimi premi letterari per sopraggiunto stomacamento dovuto ad egotistiche masturbazioni mentali (testimonianza dell’efferato solipsismo tipico dell’autore nostrano di successo ― vedi che se mi ci metto so scrivere forbito anch’io), ho sentito il bisogno di dedicarmi a una lettura che desse soddisfazione, e chi meglio di Haruki Murakami?




L’ultimo romanzo dell’autore giapponese è un libro che ha dato la stura a giudizi tra i più disparati: da chi lo considera un’inutile perdita di tempo a chi lo osanna, da chi lo ritiene una vera e propria schifezza indegna di un autore come Murakami, a quelli (e sono i più) secondo i quali è un vero e proprio capolavoro. Una dicotomia sostanziale, nella quale sembra non esistano vie di mezzo.
Be’, lasciatemelo dire, coloro che hanno affermato che è una schifezza non dico che non abbiano capito un cazzo, ma di sicuro non l’hanno letto con abbastanza attenzione, o si “aspettavano” di leggere qualcos’altro (ciò mi ricorda di aver letto tanto tempo fa un giudizio pessimo sullo splendido Un uomo di Oriana Fallaci, la redattrice del quale si lamentava del fatto che come romanzo non era un gran ché. Non aveva nemmeno capito che non era un romanzo…). Forse a completamento dei miei corsi di Scrittura Creativa dovrei organizzare dei corsi di Lettura Consapevole, sono sicuro che a molti farebbero bene.
Ora, qualsiasi romanzo può non piacerti, ci mancherebbe, ma per affermare che sia una schifezza ci vogliono delle ragioni fondate su basi concrete, e in questo caso non ci sono proprio.
C’è anche chi lo ha condannato senza sconti di pena sostenendo che Murakami si è lasciato irretire dal soldo prestandosi alla smaccata pubblicità di prodotti commerciali quali l’Ipod o le auto della Lexus che vengono nominati nel libro.
Anche ammettendo che ciò sia vero perché tutto è possibile, mi viene da pensare: chi è che oggi non usa un Ipod? Ipod è diventato sinonimo di “lettore di Mp3”, e stilisticamente è molto meglio scrivere: “si infilò le cuffie del suo Ipod…” piuttosto che “si infilò le cuffie del suo lettore di musica digitale…”, giusto? Se lo avesse scritto un autore del tutto sconosciuto, nessuno avrebbe pensato che fosse stato pagato per fare pubblicità a quel prodotto.
E per quanto riguarda la Lexus, il panegirico che ne fa Murakami, esaltando qualità e prestazioni delle loro auto, è inserito perfettamente in un dialogo tra il protagonista e un concessionario di questo brand.  Una discussione del tutto scorrevole e plausibile ― come tutti i dialoghi di Murakami ― nella quale il concessionario, nella realtà, avrebbe parlato esattamente in quel modo tipico del personaggio “concessionario di automobili”. Un venditore di Mercedes avrebbe detto le stesse cose: caratterizzazione del personaggio azzeccatissima. Murakami avrà anche preso dei soldi dalla Toyota per fare pubblicità alla Lexus? Be’, complimenti, piacerebbe anche a me riuscirci con un risultato dello stesso stile.
Ma torniamo a noi. L’ultimo romanzo di Haruki Murakami è un viaggio nell’introspezione: in una Tokio anonima e spersonalizzata, in secondo piano ma responsabile comunque della forgiatura dei personaggi che la abitano, un quasi quarantenne ripercorre gli avvenimenti di un passato nel quale ha sofferto e prova a ricostruirne le ragioni, ricercando gli amici perduti per motivi irrisolti, con lo scopo di poter meglio pianificare il suo futuro. Un romanzo imperniato sui sentimenti, scritto con un linguaggio semplice e squisitamente delicato come semplice è lo spunto di partenza dal quale si dipartono interrogativi che suscitano nel lettore uno stato di tensione continuo aumentando man mano la curiosità di veder succedere i fatti preconizzati. Leggendo Murakami ci si lascia prendere dalle sensazioni e si viene trascinati nell’ambiente che l’autore descrive con un’efficacia straordinaria, fino a lasciar immaginare tutti i particolari. Una lentezza solo apparente, condita da un uso concreto delle metafore, delle analogie e delle similitudini, e un eccellente ritmo dei dialoghi.
A me è piaciuto con tutti i dubbi che Murakami lascia irrisolti di proposito, perché se ci rifletti un po’ sopra, qualsiasi altro finale avrebbe saputo di banale e scontato. E il protagonista, dipinto come incolore,  si rivela alla fine essere il più iridato, quello in cui si possono trovare i colori più profondi e accesi. Mi è piaciuto anche l’inserimento di quel pizzico di onirico e sovrannaturale con cui Murakami ama guarnire le sue opere: durante il racconto del jazzista Midorikawa e della sua strana situazione mi è venuta in mente la famosa partita a scacchi tra Antonius Block e la Morte ne Il settimo Sigillo di Ingmar Bergman. Chissà perché, visto che le vicende sono del tutto diverse.
Per questo romanzo la traduzione dal giapponese è stata fatta da Antonietta Pastore invece che dal consueto Giorgio Amitrano. Non so il perché. E in ogni caso la Pastore ha svolto un lavoro ammirabile. Ma la cosa mi aveva incuriosito e ho cercato un po’ in rete, dove non ho trovato nulla ad eccezione di questo articolo, a firma dello stesso Amitrano, che ritengo molto interessante perché dà un’idea dei problemi che un traduttore si trova ad affrontare, soprattutto volgendo una lingua così lontana dalla nostra.
Alle prossima!
Il Lettore 

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