sabato 12 settembre 2015

Viaggio in India

Quanto tempo era che non leggevo Hermann Hesse!
Di sicuro più di venticinque anni. Dopo aver letto, a cavallo dei vent’anni, una buona parte dei suoi libri: da Siddharta a Il gioco delle perle di vetro (tanto per citarne solo due, rigorosamente in ordine cronologico ma anche di numero di pagine), ho lasciato passare veramente tanto tempo prima di riprendere in mano questo Viaggio in India del 1913 che costituisce un prodromo della sua produzione più celebre.




In realtà Hesse aveva cominciato a scrivere fin da prima che scoccasse il 1900, ma delle opere antecedenti questo diario di viaggio è restato famoso solo il Peter Camenzind. Un viaggio che lo scrittore tedesco ha iniziato appena compiuti i trent’anni sulla scia delle esperienze di genitori e nonni: ci sono uomini che, non sopportando più l’atmosfera di una casa affollata di moglie e tre figli piccoli, cominciano a giocare a bridge, Hesse si è preso una pausa di riflessione trasferendosi dall’altra parte del mondo. Ma poi è tornato a casa (a differenza di altri), e si è messo a scrivere sul serio fino a ottenere il Nobel nel 1946.
Questo Viaggio in India è stato un po’ una sorpresa: ho scoperto un Hermann Hesse più semplice per non dire terra terra, meno maturo di colui al quale ero abituato e più legato alle cose di vita comune, fosse una buona cena o una sigaretta, sempre riflessivo e acuto nelle sue considerazioni ma lontano dalle atmosfere magiche e misteriose de Il lupo della steppa o dalla spiritualità di Narciso e Boccadoro. Del resto, forse, il tema del contrasto tra natura e spirito si è evoluto in Hesse anche grazie a questo viaggio in cui, come molti occidentali, ha voluto toccare con mano le differenze tra la cultura europea e quella asiatica, e del quale si sente poi traccia in tutte le sue opere successive.
Più volte, leggendo, per come riporta la cronistoria dei luoghi visitati e degli incontri che lo hanno colpito inserendovi le sue considerazioni, mi ha ricordato Tiziano Terzani, che come Hesse era rimasto affascinato dall’Oriente e vi ha ambientato le sue peregrinazioni diverse  decine di anni dopo fino a scriverci sopra parecchi libri. Anche a distanza di tanti anni gli ambienti descritti sono analoghi, quasi immutati gli usi e i costumi, a testimonianza di abitudini radicate da secoli in un mondo del tutto diverso dal nostro che i due scrittori hanno narrato in modo sorprendentemente simile.
Lo stile di Hesse è più “grezzo” rispetto a quello che ricordavo, ma l’ultimo libro suo che avevo letto era stato proprio il “Gioco” del quale avevo ancora in mente la prosa adamantina, e cinquant’anni di differenza tra le due stesure costituiscono una notevole differenza. A parte il fatto che molte piccole stonature potrebbero essere imputabili alla traduzione risalente agli anni ’70:
La gigantesca farfalla, attratta più volte dalla luce, si era ormai bruciata le ali. Presi a cercarla e la trovai sul pavimento priva di vita. Quando la sollevai, il suo corpo, già in parte rosicchiato brulicava di quelle minuscole e grige formiche nane, che qui si ritrovano nello zucchero, nelle scarpe, nelle calze, nella scatola delle sigarette e nel letto, e sulla cui selvaggia avidità di preda si impara presto a scrollare le spalle, come sulla crudeltà dei cinesi, sulla falsità dei giapponesi, sulla mania di rubare dei malesi e su altri piccoli e grandi mali dell’Oriente.
Non che in questo brano vi siano errori ― a parte quel “grige” che nel libro è scritto proprio con questa grafia, senza “i” ― e avevo pensato di citarlo per rimarcare come anche ai primi del ‘900 gli stereotipi sui popoli orientali fossero simili agli attuali, ma può costituire anche un esempio della maniera, non sbagliata, ma perlomeno discutibile di come sono inserite le virgole in tutto il testo.
Bene, ho un’oretta da far passare e quasi quasi, per rifarmi la bocca con uno stile più maturo, mentre riporrò questo volumetto sullo scaffale lascerò che il Siddharta mi resti attaccato alla mano e ne rileggerò qualche pagina a caso…
Il Lettore

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