martedì 2 giugno 2015

Tiratore scelto

Uno degli aspetti della mia vita di cui non vado molto fiero è quello di essere stato un cacciatore. Va bene, è successo tra i miei dodici e i quindici anni, quindi più di quarant’anni fa e in quell’età in cui si capisce ben poco, e non avevo (ovviamente) nemmeno la licenza, ma le mie alzatacce alle tre di notte insieme a mio padre le ho fatte, e di prede innocenti ne ho riportate a casa. Purtroppo. Di quel breve periodo mi è rimasto un rimorso sedimentato, ma anche il piacere di imbracciare un fucile, che in seguito ho sviluppato in un’ottima capacità di centrare bersagli inanimati come sagome lontane nei poligoni di tiro o paglioni nei campi di tiro con l’arco. E al di là della fatica, tra i pochi ricordi piacevoli dell’anno passato sotto le armi ci sono quelli di sparare con il Garand 7.62  e anche il portarmi a spasso la mitragliatrice pesante Browning M2 calibro .50.
Questo per far capire come questo libro non avrebbe potuto non piacermi.




Questa di Charles Henderson è la biografia romanzata di Carlos Hathcock, il prototipo e il più famoso dei tiratori scelti dell’esercito americano. Dei cosiddetti cecchini, degli American Snipers, Carlos Hathcock è quello vero.
Poi, dopo che Chris Kyle ha scritto la sua autobiografia (American sniper: The Autobiography of The Most American Sniper in U.S. Military History) basandosi su questo libro di Henderson e ricalcando la figura di Hathcock, e dopo che Clint Eastwood ne ha tratto il film American sniper che è diventato famoso in tutto il mondo, allora Kyle ha soppiantato Hathcock come “il più letale” mai esistito. Merito della pubblicità, della risonanza mediatica, dell’afflusso di quattrini e, non ultimo, del fatto che Kyle è stato realmente ammazzato da un commilitone dopo aver dato il libro alle stampe (Hathcock è morto di sclerosi multipla a 56 anni).
Chris Kyle era un membro dei Navy Seals e ha operato in Iraq, Carlos Hathcock era un Marine che ha combattuto in Vietnam, subito dopo la decisione dei comandi statunitensi di migliorare il rendimento delle unità operative ottimizzando le capacità di essere letali. Alla fine della seconda guerra mondiale ci si era accorti di come la media di vittime tra i nemici fosse di una ogni 15.000 (quindicimila!) proiettili esplosi. Su questa base gli alti papaveri decisero che c’era troppo spreco e intrapresero una campagna votata al risparmio sul peso: sostituirono il Garand (calibro 7.62 ― e le dismissioni furono vendute all’esercito italiano… NdF) con l’M16 (calibro 5.56), in modo da consentire al fantaccino di potersi caricare di più munizioni, e istituirono dei corsi specialistici, tanto per cominciare tra i Marines, per insegnare ai più dotati a sparare ancora meglio. Il motto che adottarono fu: one shot, one kill. Erano nati gli american snipers. Questo per portarsi dietro meno pallottole.
Al di là del messaggio esplicito di entrambi i libri e del film, che altro non è se non quello dell’esaltazione dell’eroe americano e per questo criticabile quanto si vuole, nella biografia di Henderson si può riscontrare una minore enfatizzazione di questo concetto, con un tentativo di guardare alla vita di Hathcock anche da un punto di vista più umano. L’autore cerca più volte di spiegare come quello che faceva il protagonista non fosse altro che un “lavoro”. Lavoro che lo ha portato ad uccidere più di cento esseri umani, per citare solo quelli “riconosciuti”.
Nemici quanto si vuole, era una guerra eccetera eccetera, ma lasciamo perdere queste considerazioni buoniste che qui valutiamo il libro, e i giudizi etici o morali delle ragioni e delle conseguenze di una guerra le lasciamo ad altre sedi.
Henderson parte dall’infanzia rurale di Hathcock e cerca di spiegare come le sue doti fisiche e mentali lo hanno fatto arrivare ad essere uno tra i più temuti nemici dei vietnamiti, capace di strisciare nel fango per tre giorni interi coprendo la distanza di un solo chilometro per essere nel posto giusto al momento giusto, o di centrare un bersaglio alla inimmaginabile distanza di 2200 metri (provate a colpire una mela situata a “soli” 100 metri da voi, poi ne riparliamo). E la scena del tiratore che uccide il cecchino nemico infilando il proiettile proprio al centro dell’ottica montata sul suo fucile, scena che avrete visto diverse volte (in almeno sette film, e poi fumetti, cartoni animati e serie televisive), è stata ripresa da un episodio accaduto proprio ad Hathcock.  Penna bianca (era il suo soprannome tra i vietcong) era il soldato americano con la taglia più alta in assoluto sopra la testa. E l’autore prosegue poi con il dopo-Vietnam, con gli svariati problemi sia di salute che psicologici dei quali Hathcock è stato affetto, fino a dare il quadro completo di una vita vissuta all’insegna della non-normalità.
Un bel libro, scritto bene e interessante dall’inizio alla fine che mostra un occhio di riguardo nel voler far apparire Hathcock non tanto un uomo qualunque, quanto un uomo coerente e sensibile, e degno di considerazione nonostante la sua occupazione retribuita fosse quella di uccidere gente. Capace anche di gesti altruistici, come quando l’anfibio sul quale viaggiava esplose su una mina e lui salvò dalla morte sette soldati che viaggiavano con lui, pur avendo il 90% del corpo ricoperto da ustioni gravi che gli causarono la fine della carriera militare e parecchi anni di sofferenze. La bravura di Henderson sta nel fatto che, senza indulgere nell’esaltazione, riesce a renderti simpatico il protagonista nonostante quello che egli faccia sia esecrabile.
Il Lettore 

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