Avevo preso in prestito
questo Bianco insieme ad Atti osceni in luogo privato e, visto
che avevo apprezzato il secondo, ho cominciato subito a leggere quest’altro
romanzo di Marco Missiroli nonostante
di solito abbia un po’ di remore nel farmi di fila due romanzi dello stesso
autore.
E nel caso di questo libro
già dalle prime pagine un certo sentore aveva cominciato a invadere le mie
cellule olfattive, come dire, una sensazione strana, più che un dubbio, un vero
e proprio sospetto, qualcosa come… puzza
di bruciato, ecco.
Allora, prima ancora di finirlo,
sono subito andato a vedere in rete che cosa gli altri avessero pensato di questo romanzo, e ho scoperto che la
maggior parte di coloro che lo avevano letto ne erano rimasti come minimo affascinati: meraviglioso,
sensazionale, fenomenale, magnifico sono solo alcuni degli aggettivi che gli altri hanno usato per giudicarlo.
Lì per lì ho abbozzato (ma
come, la puzza la sento solo io?) e
ho continuato a leggere fino a terminarlo, e alla fine… ma andiamo con ordine.
Si vede proprio che alla
Holden piace andare contro i dettami classici delle scuole di scrittura
creativa: tu insegni a un principiante il concetto di contestualizzazione e di quanto questa sia importante, poi alla
lezione successiva il principiante ti porta questo libro insieme a La sposa giovane di Baricco, te li tira in faccia e ti apostrofa: “Ma tu
che cazzo dici?”.
E tu dagli a spiegare che
delle regole per scrivere bene è
vero tutto e il contrario di tutto, e che anche il non contestualizzare può funzionare benissimo, a patto però che tu sia già bravo del tuo. E
come minimo devi aver fatto un corso di livello superiore. Possibilmente alla
Holden.
Come nel romanzo di Baricco,
anche in questo non si sa dove si svolge l’azione né la collocazione temporale,
il che all’inizio ti lascia un po’ spaesato, ma ti ci abitui presto e lo
apprezzi anche, solo che poi cominci
a notare la presenza anche di altri
concetti venuti fuori pari pari dai corsi di una scuola di scrittura creativa,
e quando questi cominciano a essere parecchi ti domandi se all’autore sia venuto
spontaneo applicarli o se abbia solo
voluto prenderti per il culo.
Moses
Carpenter è un anziano
vedovo che vive da solo alla periferia di una città del Sud degli Stati Uniti.
Un bel giorno nella villa sfitta accanto alla sua arrivano i nuovi occupanti: una
famiglia mista con lei bianca e lui nero (negro),
figlioletto nero e madre del marito pure. Il problema è che il vecchio (bianco),
e tutta la sua comunità di conoscenti sono dei razzisti convinti e attivisti da
sempre, fanno parte di un qualcosa di simile al Ku Klux Klan e i negri vicino a casa loro non ce li vogliono
proprio e anzi, di solito fanno di tutto per ammazzarli.
E già qui… una tematica
basata sul razzismo e sul KKK scritta da un italiano non ce la vedo proprio. Se Missiroli avesse cambiato sesso
e si fosse chiamato Harper Lee sarei
stato zitto, ma un tema del genere non
fa parte della nostra tradizione e mi è sembrato tanto strano che uno scrittore
italiano e giovane se ne sia occupato, a
meno che…
A meno che non sia una buona
occasione per mostrare uno sfoggio di bravura…
Ma sì, dai, facciamo vedere
che i concetti studiati alla Holden sono stati recepiti!
Decontestualizziamo, non
diciamo dove e quando si svolge l’azione, tanto chissenefrega, la storia si
capisce lo stesso e fa tanto fico. E già che ci siamo schiaffiamoci dentro un altro po’ di trucchi letterari che qualcuno lo infinocchio di sicuro!
Un animale, ci vuole un animale a fianco del protagonista, ma un cane
o un gatto sono troppo ingombranti per un vecchio: un canarino! Ma sì, il
canarino William che svolazza libero
per casa e becca le briciole dai piatti. È tanto dolce!
E il bambino rompicoglioni ma che fa (dovrebbe fare) tanta tenerezza lo
vogliamo escludere?
E la vecchia negra malata terminale che rinfocola i
ricordi della moglie morta anch’essa di cancro? Smuove tanto le budella…
Mettiamoci anche i tormenti del protagonista perché in
vita sua è sempre stato angosciato dal suo dover essere per forza razzista (retaggio
del padre in realtà mai assimilato, così facciamo vedere anche il pentimento) ed
esprimiamo il tutto attraverso una serie di flashback
per spezzare la continuità monotona del racconto.
Infiliamoci anche un po’ di stereotipi come personaggi accessori, gli
amici del vecchio vanno benissimo, e in quanto a stile? Ma sì, enfatizziamo, enfatizziamo, e tanto per
scopiazzare Baricco ogni tanto cambiamo l’io
narrante anche all’interno dello stesso periodo. È tutto? Ah, già, la donna bianca deve essere bella, che smuove
pulsioni ormai sepolte, così fa più ribrezzo vederla manipolata dalle mani
schifose del negro.
E la tragedia finale la vogliamo far mancare? Fa tanta commozione…
Basta, non scendo nei trucchi
più piccoli adoperati nella
costruzione delle frasi e nella ricerca della terminologia.
Fatto sta che dopo aver
notato i primi di questi trucchi il patto
di sospensione dell’incredulità che avevo intenzione di stipulare con l’autore
è andato subito a farsi benedire, e pur riconoscendo la professionalità di
quest’ultimo e la bravura con cui ha confezionato il pacco, dalla ricerca delle
parole al loro metterle insieme, il romanzo non mi ha preso per niente e l’ho
terminato a fatica pure con un senso di fastidio.
In un romanzo l’autore non deve farsi notare. Non lo devi sentire, non devi pensare a lui, non ti deve venire mai nemmeno in
mente. Quando invece vuole per forza farti vedere quant’è bravo allora sì, che
decade nella tua considerazione, per quanto sia in gamba. E farlo risalire la
vedo molto dura.
Qualche volta vorrei davvero
avere un animo candido, incapace di notare molte cose. Mi divertirei molto di
più.
Il Lettore
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