Torniamo alla fantascienza.
Breve. The thing in the stone è un
racconto lungo del grande Clifford Simak
mai pubblicato da solo come volume ma solo insieme ad altri in numerose
antologie, sia statunitensi che di altri paesi. In quelle italiane il titolo è
stato modificato, come usanza normale delle nostre case editrici, con lo
squallido Caverna nel Wisconsin.
Trovo che l’originale sia
molto più attinente al tema
trattato, e non mi riesce di capire il motivo per il quale qualche editor debba per forza modificare titoli,
e a volte perfino interi brani, per adattarli ai nostri (presunti) gusti.
Wallace
Daniels è un uomo che dopo
aver subito un grave incidente nel quale sono morti moglie e figlio si è ritirato
a vivere da eremita in un luogo pressoché disabitato. L’incidente gli ha anche
lasciato strani postumi quali il
trovarsi, a volte e senza poter esercitare un controllo da parte sua, calato in
altre epoche del passato, o il riuscire ad ascoltare voci dalle stelle.
Esplorando una caverna “sente”
che nelle profondità della roccia è intrappolata
una creatura vivente, e grazie ai suoi viaggi nel tempo riesce a capire come e
perché questo essere, pressoché immortale, si trova lì fin dal Precambriano (più o meno quattro
miliardi di anni, giorno più giorno meno). Daniels non riesce a entrare in
contatto diretto con la creatura, ma riuscirà a connettersi e capirsi con un
altro essere, immateriale, che staziona nei pressi di dove è imprigionata la
creatura con il compito di controllare la situazione.
In Daniels cresce il
desiderio di poter aiutare la creatura e il suo sorvegliante (amico? Amante?
Servitore?) a uscire dalla situazione
in cui sono intrappolati, ma i suoi tentativi di convincere le autorità (e con
loro gli scienziati) che quanto intende raccontare loro non sono farneticazioni
di un visionario falliranno miseramente.
Spunto molto intrigante trattato con lo stile semplice
e perfetto di Clifford Simak, che
non per niente è considerato uno dei più importanti scrittori di Fantascienza
mai esistiti. L’unica pecca, secondo me, è quella di averne tirato fuori un
racconto di solo un’ottantina di pagine, perché l’argomento si può prestare a
una miriade di modi in cui essere approfondito. Ma capisco anche che qualsiasi
verso possa aver preso un approfondimento ci si sarebbe trovati di fronte a
serie difficoltà sul come poi uscirne in maniera plausibile e sensata. Forse
anche Simak ha pensato la stessa cosa, finché alla fine si sarà detto: va be’,
il sasso l’ho tirato, ritiriamo la mano e stiamo a vedere che succede.
Anche se Caverna nel Wisconsin lascia al lettore, come era nelle intenzioni
dell’Autore, più interrogativi irrisolti di quanti in fondo ne chiarisca, resta
comunque un gran racconto dalla prosa ineccepibile che induce a pensare a fondo
sui concetti di comunicazione, solitudine e vastità dello spazio che ci
circonda.
Il Lettore
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